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Canapa

€15,00
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La saga di una famiglia di canapieri di Frattamaggiore (NA) che si svolge nella prima metà del Novecento.

Le vicende dei vari personaggi sono inserite negli eventi storici come l’avvento del fascismo e la II guerra mondiale.

Una storia di ieri per capire il mondo di oggi.
212 Pagine

"Canapa": l'ultimo romanzo di Raffaele Abbate.
Una recensione di Francesco De Filippo
Scritto da Alessio Malinconico


La produzione della canapa per decenni e fino a pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale è stata un'industria fiorente del Napoletano. Soprattutto in quello che oggi non è più che un enorme paesone privato di identità, Frattamaggiore.
È qui che Raffaele Abbate ha ambientato il suo Canapa, oggi in una nuova edizione da Melagrana, dopo il secondo posto ottenuto al II Premio "Napoli narrativa".

Dalla fine dell'800 in poi, più o meno tutto ciò che riguardasse corde e cordame, che non fosse preziosa sete giapponese e prima della diffusione del nylon (now you lose old nippon), era canapa. Come tutte le corde per campane nell'intero territorio pontificio. Canapa prodotta con il lavoro duro di operai senza quasi diritti negli opifici aperti notte e giorno di Frattamaggiore. Non era la miniera ma l'insalubrità era notevole e c'era chi moriva a causa della bezoari, la palla di stoppa che cresceva nello stomaco manifestandosi all'improvviso e sempre troppo tardi. Economie domestiche di sopravvivenza per centinaia di famiglie a fronte dell'arricchimento indiscriminato di pochissimi 'signori della canapa'. Gente dura, spietata prima di tutto con se stessa, feroce con gli altri; vendicativa e carnale. Il libro di Abbate racconta questi decenni di fortuna partendo da uno dei capostipiti delle famiglie di signori, don Severino Profili. E di quando, il 1 maggio 1910, in tutto il paese non si parla d'altro che della morte della ribelle Anna Grassi. Non un'operaia qualunque: l'amante di don Severino, colei che gli ha dato un figlio, Ciro.

La storia della canapa è dunque la storia dell'Italia, di quella gente dura che in condizioni di disumanità, come fu nel secondo conflitto mondiale, perse le scarse remore del viver civile restando con il solo obiettivo dell'utile personale. Non tutti, certo, ma i più spregiudicati sono in questo ambito i futuri vincitori. Allora la Storia si intreccia alle vicende personali, e nell'inestricabile disastro che sarà la guerra a Napoli si incrociano scenari malapartiani con rese dei conti personali e vicende immaginarie. Il campione in questa arena è proprio Ciro Grassi. Si fa valere sui vari fronti militari aperti nel mondo ma la spregiudicatezza in lui prenderà il sopravvento sull'intelligenza, sulla furbizia. Se il racconto è il frutto di storie più o meno vere passate di bocca in bocca, di madri in figli, è difficile invece stabilire se davvero fu Ciro Grassi a impadronirsi dell'oro degli ebrei del ghetto di Roma, un immenso tesoro che non bastò loro ad evitare la deportazione nei vagoni piombati. Nella realtà sembra che l'oro fu trovato in Germania mentre nel libro, con episodi rocamboleschi, giunge a Napoli portato, appunto, da Ciro Grassi.

Il libro parla anche, e con ricchezza di raccapriccianti dettagli, di una pagina di storia di recente approfondita da vari saggi storici: il ruolo dei ferocissimi goumiers, i guerrieri marocchini, nella battaglia di Cassino. Massacri terribili, con l'assenso del generale francese Alphonse Jouin, ai danni della popolazione civile, che pagò un prezzo altissimo. L'autore ha lo spirito del necessario distacco partenopeo - quello di chi ha visto troppo per scandalizzarsi o almeno sorprendersi - che gli fa attraversare indenne stermini vari, violenze domestiche, fortune dissipate, conservando fino ai due epiloghi l'arguta ironia che precede il romanzo.

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