L’isolamento della barca
Questo è un argomento decisamente importante e frequentemente sottovalutato dagli armatori: difficilmente tra le prime domande delle caratteristiche in fase di acquisto, vi è quella sull’isolamento o meno e come.
Certo, va detto che la maggior parte dei diportisti non trascorrono più di 2 settimane continuative a bordo, rimanendo il natante sostanzialmente un “giocattolo costoso”; se poi aggiungiamo che il periodo vacanziero coincide con l’estate e conseguente permanenza all’esterno della barca, diventa comprensibile il disinteresse all’argomento.
Diverso invece quando si parla del liveaboard, ovvero quel “pazzo fortunato” che ha deciso di trascorrere buona parte dell’anno (o proprio la vita) nella sua casa galleggiante.
Qui le problematiche divengono evidenti, riportandoci alle stesse dinamiche abitative in terraferma; con l’enorme differenza che l’approvvigionamento di aria calda o fredda è meno semplice.
E se da una parte le dimensioni contenute della residenza acquatica, la rendono più facile da riscaldare (relativamente parlando), il difficile arriva quando si vuole rinfrescarla: l’effetto forno è garantito a priori.
Ecco perché l’isolamento termico della barca diventa fondamentale al pari di vele e motore.
L’isolamento di una barca in alluminio
La barca in lega di alluminio, a differenza di legno e vetroresina, non ha un isolamento indotto dal materiale stesso: il metallo si sa è un conduttore termico fantastico; ma l’alluminio è il re dei conduttori termici; ciò si traduce in un rapido riscaldamento e raffreddamento.
Direte voi “che pessima notizia”. Apparentemente sì; in realtà però lo svantaggio si trasforma automaticamente anche in vantaggio: quando ad esempio in estate tramonta il sole, l’alluminio come si è riscaldato rapidamente, si rinfresca altrettanto velocemente; mentre le altre barche mantengono il calore accumulato (poco o tanto che sia) per molte ore ancora!
Inutile però girarci intorno, la barca in alluminio va isolata bene, a priori; così anche da ottimizzare il vantaggio appena descritto.
Esperienza su Yakamoz
La nostra prima barca è considerata dalla vulgata comune come la 4×4 dei mari (il modello Ovni, del rinomato cantiere Alubat), insomma la barca d’alluminio per antonomasia (vero-invero: dopo esperienza diretta e indiretta, ritengo sia un riconoscimento meritato sotto alcuni aspetti, ma probabilmente, a conti fatti, più una fama acquisita grazie alla diffusione della barca nel mercato; e difatti gli ovni sono non di rado armati, purtroppo, anche da molti proprietari sprovveduti, totalmente ignoranti sul cosa significhi uno scafo in lega; ma che hanno scelto la barca francese per moda, così da “acquistare” in qualche maniera lo status di navigatore di lungo corso).
Ebbene, a conferma di quanto scritto tra parantesi, il nostro Ovni non era isolato! E gli ex armatori un gruppo di amici dediti a trascorrere qualche giorno di vacanza…
Precisazione: non sto assolutamente asserendo che gli Alubat siano barche in alu di serie “B”, ci mancherebbe; sono barche eccezionali e Yakamoz ci ha fatto navigare sempre in totale sicurezza e affidabilità; io sto parlando di scegliere il top tra i top, dopo aver maturato quell’esperienza nel “mondo alu” che consente di vedere dettagli e accorgimenti divenuti per noi fondamentali. A prova di ciò nel settore dell’alluminio vi sono cantieri magari un po’ meno diffusi come nome rispetto agli Alubat, ma dalla qualità costruttiva e progettuale leggermente migliori; forse un po’ di nicchia e attenzionate per l’appunto dal navigatore “alu” più esigente; e di sicuro “barche isolate a priori”, non come “optional”.
Tralasciando le altre problematiche ahinoi ereditate dal “peccato originale”, l’assenza di isolamento termico si fece sentire molto spesso.
La prima esperienza la facemmo proprio all’inizio, quando scegliemmo di vivere a bordo, lungo il fiume Tevere a Roma.
L’inverno era qualcosa di terribile: nonostante le classiche stufette elettriche, accese senza soluzione di continuità (eravamo ormeggiati presso un cantiere con corrente inclusa nel canone), durante il periodo più freddo la temperatura di notte non saliva mai oltre gli 11°!
Io e Başak eravamo giovani, “caldi” e totalmente entusiasti della nostra scelta di vita (di cui potete leggere tutto nel libro che trovate qui), da sopportare la situazione con fare stoico.
D’estate paradossalmente si soffriva leggermente meno, per i motivi scritti all’inizio: si passava il meno tempo possibile all’interno e la notte lo scafo si rinfrescava abbastanza da consentirci dormite dignitose (ma non sempre); e grazie anche all’aiuto di un ottimo ventilatore di cui a suo tempo ne scrissi la recensione per un famoso store di nautica (se vi interessa eccola qui: sul loro blog potete trovare molte altre mie recensioni e test).
In pratica l’unico vero isolamento di Yakamoz era l’arredamento in legno, di cui la barca oggettivamente non lesinava. Ma tutto qui; ed è uno dei motivi che ci spinse a separarci dalla nostra amata, in quanto ogni anno studiavamo il modo di porvi rimedio, rendendoci conto ogni volta dell’impossibilità: avremmo potuto forse isolare i celini e con difficoltà, vista la poca distanza tra pannelli e coperta, ma di certo non l’opera morta; a meno di smontare tutto il mobilio, parecchio incollato e poco avvitato (a differenza di Rebound dove la qualità costruttiva si vede anche da questi, apparentemente piccoli, dettagli).
Come isolare termicamente una barca
Non sta a me scrivere una guida, in quanto la mia esperienza specifica è relativa; quello che posso fare però è di rendere pubbliche le scelte, oggetto di ampie discussioni tecniche con Başak e altre persone specializzate. Tenuto conto delle finalità del nostro progetto e di base della filosofia di vita, l’impatto ambientale era il primo requisito. Successivamente o di pari livello, l’impiego di materiali naturali al fine di garantirci la salubrità a bordo. Dopodiché veniva la parte prettamente tecnica e legata alla barca e all’ambiente salmastro.
Nonostante ampia ricerca, ci siamo resi conto che nel settore nautico, non vi è molta attenzione ai primi 2 fattori; e pressoché unanimamente le voci indicavano nel migliore dei casi materiali specificatamente nautici, impiegati su motoryacht di un certo livello: totalmente artificiali, efficientissimi, sicuramente ignifughi, altrettanto costosi e profondamente impattanti a livello ambientale; tra questi i pannelli in lana di vetro, minerale e di roccia. Non entro nel merito di eventuali problemi di salute legati ai materiali appena elencati, ma dato che vanno installati anche in zone soggette a eventuali infiltrazioni di vento (si pensi ai celini che non sono chiusi ermeticamente al 100%), la possibilità che possano diffondersi nell’ambiente, particelle di “lana di roccia” (solo per fare un esempio), non la ritengo esattamente una valida opzione; e ne ricevetti conferma anche da un rappresentante di una famosissima azienda del settore, fornitrice di brand importanti della nautica di lusso. Diverso se le paratie sono del tipo a “tramezzo edile”, per intenderci, garantendone la non fuoriuscita; opzione facilmente presente su un Ferretti o un Perini, ma senz’altro non realizzabile su imbarcazioni da diporto “umane”.
La seconda scelta (ma forse la più diffusa) era il polistirene: nome nobile del semplice e più noto polistirolo. Questo materiale è molto diffuso in ambito edile e viene usato in particolare per realizzare i cappotti termici degli edifici; non avendo scovato alternative naturali, all’inizio stavamo per optare per il modello XPS (meno diffuso del EPS): totalmente impermeabile, mantenendo leggerezza e economicità. Tuttavia non ne eravamo felici, poiché come detto volevamo rispettare i primi 2 punti: ambiente e salute. Comunque anche solo per semplice curiosità ne ho provato un pezzo, verificandone l’altro aspetto tecnicamente rilevante: la reazione al fuoco. Fermo restando che gli incendi a bordo sono rari (diciamo così) e dato per scontato che Rebound godrà di impiantistica nuova, anche la sola – esigua – probabilità di venir colpiti da un fulmine (dei cari amici sono stati “baciati” da questa sorte in pieno mare) ci spaventa; in tali casi è importante avere a bordo materiale il meno possibile “partecipante al fuoco”.
Ci tengo a sottolineare una cosa: rendere totalmente ignifuga una barca è affare se non impossibile, sicuramente complicato; a meno di rinunciare a qualsiasi materiale infiammabile; questo significa bandire suppellettili di legno, arredamenti e ogni altro elemento del genere; figuriamoci armare una barca costruita proprio in legno… da qui si capisce che la statistica è per l’appunto a vantaggio della rarità. E a conferma di quanto asserisco sono gli stessi incidenti che vedono unità da diporto anche recenti, roba da nababbi persino (parlo di motoryacht), prender fuoco senza possibilità di estinguimento; e posso scommettere trattarsi di barche isolate con materiali certificati ignifughi, costati un capitale; solo che se per mille motivi il fuoco arriva ad esempio alla stessa “plastica” (vetroresina), questa si trasforma in un cerino, poiché molto infiammabile. Fine della fiera. E, aggiungo, i pannelli sopra menzionati (EPS, XPS et similia) e che erano presenti anche nell’isolamento di Rebound, provati accendino in mano, non prendono fuoco immediatamente, cosa per cui vengono certificati in “classe E” come reazione al fuoco; ma non appena parte la combustione, diventano compartecipi all’incendio, addirittura alimentandolo in modo significativo; e producendo un fumo decisamente tossico. Ergo, pericolosissimi.
Non so se questa sia una delle cause dei vari incendi a cui abbiamo tristemente assistito negli ultimi anni, a danno dei cappotti termici, ma ora immagino di sì.
Isolamento termico di Rebound: sostenibile, ovviamente
Come anticipato partivamo da pannelli infiammabili che ovviamente abbiamo sbarcato immediatamente, avviandoli al riciclo.
Dopo attenta analisi e ulteriore ricerca, ci siamo imbattuti in un sito che da subito ha catturato la nostra attenzione: canapuglia.it.
Dato che tra le molte esigenze di Rebound, vi sono anche cose se vogliamo meno importanti, eravamo già atterrati sul sito in questione, scovando articoli interessanti realizzati in modo al 100% sostenibile, a base di canapa; ma ci erano sfuggiti totalmente i pannelli per isolamento termico, venduti a uso eco-edile: Eureka!
A quel punto siamo entrati in contatto con il titolare Claudio Natile (e il suo fantastico team), il quale ci ha spiegato che i pannelli isolanti in fibra di canapa, sono assolutamente compatibili con l’umidità, traspiranti e refrattari a eventuale proliferazione batterica; e certamente sostenibili. Perfetti per noi!
Consiglio vivamente di leggere tutte le sorprendenti caratteristiche dei pannelli in fibra di canapa, direttamente nella pagina dedicata: eccola qui.
Inutile dire che spiegato il nostro progetto, Claudio è stato subito entusiasta di partecipare in qualità di sponsor; cosa che ci ha resi davvero felici, in quanto i prodotti di Canapuglia saranno senz’altro presenti a bordo di Rebound, e noi ben contenti di pubblicizzarli e diffonderli.
Bene, non appena ricevuti i pannelli, con spessore da 40mm, ci siamo subito messi all’opera per testarne le caratteristiche; la reazione al fuoco in particolare, cosa che eravamo curiosi di verificare de visu, sebbene ci sentivamo confortati dai vari video presenti in rete e analisi tecniche lette a difesa del materiale, tra cui al certificazione in classe E anche per la fibra di canapa.
Prova accendino: ci rendiamo conto subito che la fibra di canapa non reagisce come gli altri materiali; cioè a fiamma diretta avviene una combustione che non genera fiamma, ma solo fumo… fumo tra l’altro piacevole (tranquilli, di battute ne abbiamo fatte già molte io e Başak: “no woman, no cry”): wow!
Devo essere sincero, non mi aspettavo anche questo vantaggio ed eravamo pronti a utilizzarli comunque, perché sul serio l’attenzione all’ambiente e alla salute sarebbero stati prioritari davanti all’esigua statistica di cui sopra. Ma ora, caspita, ne siamo entusiasti.
La caratteristica meno simpatica di questi pannelli invece risiede nella manipolazione e messa in opera: essendo molto fibrosi già il taglio diventa complicato con i normali attrezzi e/o forbici; dopo vari test abbiamo optato efficacemente per questo tipo di forbici.
Inserirli nei vari interstizi poi equivale a farsi delle simpatiche docce di canapa, laddove si parli di celini ovviamente: la gravità è un problema a cui nemmeno la canapa si sottrae; cosa per cui abbiamo dovuto organizzarci semplicemente con occhiali e mascherine.
Quest’ultimo disagio ci ha convinti definitivamente a procedere con la successiva applicazione a chiudere, di pannelli in sughero da 10mm (cosa che per l’appunto avevamo già messo in preventivo): ovvero un altro isolante naturale, ignifugo e sostenibile; in tal modo ogni qualvolta dovremo togliere i celini, ci risparmieremo un po’ di pulviscolo, guadagnando nel contempo in ulteriore isolamento termico.
In conclusione, sarà solo il tempo a dirci se l’isolamento termico di Rebound sia efficace come ipotizziamo (5cm di materiale, dovrebbero garantirci un ottimo risultato), ma di certo già da ora siamo appagati di vivere in una barca salubre e che non ha contribuito all’inquinamento: come spesso sottolineo, qui nessuno è in odore di santità, impossibile; e le stesse nostre scelte tecniche in altri frangenti, non ci hanno permesso (e permetteranno) di essere sempre sul treno dell’eco-friendly; ma quando ci riusciamo bé, ne siamo orgogliosi gioendone, ed è giusto evidenziarlo e pubblicizzarlo.
Oltretutto ora, grazie alla canapa presente nelle intercapedini di Rebound, siamo sicuri di trascorrere giornate un po’ più felici e… rilassati 😅 “Get up stand up, don’t give up the fight!”.
E ora godetevi il video e come sempre: Reuse, Reduce, Rebound!
FONTE: https://sailyx.com/isolamento-termico-della-barca/